lunedì, febbraio 28, 2005

 
Non so, non è che mi sia passato tutto no.

Ma è che stasera ho fatto mi ha fatto sorridere, e incidentalmente tornare voglia di mettermi alla tastiera, il tassista. Che quando sono salito stava ascoltando musica tipo-da-dscoteca, quella tutta tunzi-tunzi-bum-bum-bam, e appena ci siamo fermati ad un semaforo rosso mi ha guardato nello specchietto e mi ha detto "Mò cambio".

E ha preso un porta-CD stracolmo di dischi masterizzati (non ce la metto la tua sigla, tranquillo) e ne ha estratto uno, e quando ha premuto PLAY è partita "Canzone per Silvia" di Guccini. E io, che stavo guardando dal finestrino la Milano ancora un po' imbiancata di questa sera, devo aver girato la testa così velocemente che lui se n'è accorto, e ha sorriso dicendo "Lo sapevo che ti piaceva, ci azzecco sempre".

E son rimasto lì, a cercare di capire se ero rimasto più sorpreso da un tassista che sceglie la musica da ascoltare indovinando i gusti di chi trasporta, o se mi avesse colpito che mi avesse identificato, e continuavo a chiedermi cosa ci fosse di guccinofilo in un cappotto nero e una sciarpa di lano rosso-alabardata.




Son successe robe, sì. Una domenica sera in stazione a Trieste, dopo uno zero a zero al Rocco. Entro al bar per comprare sigarette e panino, e mi ritrovo in mezzo a una trentina di ultras dell'altra squadra. Quella a cui avevamo gridato per un'ora e mezza "rossi di m...a" e che abbiamo fischiato per i loro rabbiosi "Trieste, Trieste, vaffanculo". Non sanno se guardare il mio cappellino rosso, troppo rosso, o la sciarpa orgogliosamente legata al collo; mi accorgo in un istante che sciarpa e cappello sono dello stesso colore del drappo che fa infuriare il toro nell'arena, e che non ho a disposizione picadores a supporto. Dubito, istantaneamente, della possibilità di uscire dalla sabbia rovente fra lanci di mazzi di fiori e acclamazioni.

Si avvicinano e la prima domanda che mi fanno è "Perchè la valigia?". Spiego - non mi ricordo se tremavo un po', ma era sicuramente per il freddo - che abito a cinquecento chilometri da lì e che ogni due settimane piglio il treno e vado sulle gradinate a perdere la voce. Si mettono a ridere, mollano un paio di porconi contro quelli della loro città che non schiodano mai il culo, mi offrono una lattina di birra e mi salutano. Sono belli, i tifosi in trasferta. Non sarà una affermazione popolare, ma sono belli.




Ho stretto un po' la cinghia - il che, dimagrendo, non è stato troppo complesso - e messo via gli spicci per un po'. Poi ho rotto il porcellino, e adesso accarezzo volluttuosamente il corpo macchina di una Nikon 5400, con la quale entro ogni giorno un po' più in confidenza. Chiedevo tempo fa al fratellone fotografo quanto ci si metta ad abituarsi, ad affratellarsi con un modello nuovo, se dopo l'acquisto subentri quel periodo più o meno lungo in cui ti devi abituare. Con questa è stato amore istantaneo, al primo colpo, alla prima carezza dei tasti funzione.

E lei ricambia così:





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