martedì, maggio 18, 2004

 






Era una passione come le altre.

C'è quello che cattura farfalle e le fissa con uno spillo sotto un vetro; ci sono quelli che collezionano francobolli, adesivi, tappi di sughero, etichette di vini. C'è la mia raccolta di piatti sporchi nel lavello, ma è un'altra storia.

E poi c'era lei, con la sua passione diversa dalle altre. Lei fotografava ombre.

In precedenza, avevo limitato le mie uniche esperienze con le ombre a giochi da bambini, con lampada e luce proiettata: allenamento e applicazione, ed ero diventato davvero bravo ad animare un'anatra sul muro, aggiungendo ulteriore drammaticità registrandone lo starnazzare durante un documentario ed utilizzando quella cassetta come fragile colonna sonora. A distanza di anni, posso ancora risentirne il fruscio, se mi concentro.

Poi - inevitabilmente - qualcuno più furbo e intraprendente di me mi aveva sorpassato, affascinando tutti con una pallida imitazione di un calciatore, e – soprattutto - con sconcissimi movimenti a simulare, scatenando la fantasia, un amplesso. Dimenticata la mia anatra perfetta, il nuovo idolo era lui. Ero rimasto troppo a lungo bambino, con i miei animali e le mie favole, e il mondo intorno a me cresceva e correva via, ed io non riuscivo più a starci attaccato. Lui, lui sì che era perfettamente a tempo, con quelle dita tozze che scatenavano primi pruriti, e qualche invidiatissimo pelo sul petto. Chissà che fine ha fatto, lui.

Anni dopo, una vita dopo, era arrivata lei. Con una Nikon sempre nella borsa, la tracolla gialla, le lentiggini sul naso, un caschetto di capelli rossi sotto un cappello a visiera, ed un paio di occhi verdi in cui mi ero quasi immediatamente perso. Io, il mio mezzo lavoro di scrittore dalle alte ambizioni, non smettevo di cercare favole nelle ombre. Lei, accanto a me, le fotografava.

Fotografa ombre di persone, di animali, piante, alberi. Non sopportava che si mettessero in posa, scattava di slancio, diceva che le ombre sono l'ultima cosa sincera rimasta al mondo: incapaci di mentire, costrette e inchiodate al suolo, quasi scolpite. Non nostro riflesso, continuava, ma riflesso della luce che, potenzialmente, covi dentro di te. Lo diceva per convincermi che avessi anch'io una luce dentro, là - in fondo - dove strappavo ogni tanto un sorriso alla vita.

Ne parlo al passato, perchè non c'è più. E' scappata ad inseguire un sogno: immortalare in uno scatto l'ombra di ogni palazzo, vicolo, campanile della sua città. E farne un'unica, immensa stampa, in cui riconoscere i suoi giorni, i nostri, i tuoi.

La riconoscerai: cammina guardando sempre per terra. Felice.

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