giovedì, febbraio 26, 2004

 
Helene





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Quante ne ho scritte di lettere, Helene. Non so perché ho istantaneamente deciso che ti chiamassi così.

Lettere. Centinaia, migliaia, sotto forma di foglio graziosamente vergato a mano, o con le dita un po' tremanti e incerte che accumulavano errori su errori sopra una tastiera, per poi premere furiosamente il consumatissimo tasto CANC. Lettere d'odio e d'amore, lettere di pura e cristallina amicizia, mail sudatissime in cui chiedevo notizie di vite lontane senza voler lasciare trasparire il mio dolore o, in qualche caso, il rimorso. E poi lettere mai spedite, conservate in un consunto contenitore blu nascosto in un armadio, lontano dagli occhi e, quasi di conseguenza, dal cuore.

E poi, e poi lettere a persone mai esistite, lettere a idoli di gioventù, lettere a scrittori che non pubblicano più, lettere a sconosciuti incrociati per un istante, fischiettanti o abbattuti, in strada. Lettere a me stesso, come è naturale che sia, in quell'orgia di autoreferenzialismo che tutti i corsi di scrittura creativa consigliano di abbandonare.

Ho scritto persino ad un animale, una volta. Un orso che si diceva bazzicasse dalle mie parti, avvistato di tanto in tanto sulle foci del Timavo, avvertito in ogni ramo spezzato nel bosco vicino, ma mai immortalato in fotografia e talmente furbo da essere in grado di dissimulare persino le tracce di un suo passaggio. Gli esprimevo la mia stima e gli scrivevo di continuare così, che eravamo tutti con lui, in un foglio bianco a righe blu che ho fatto scivolare di nascosto nel cavo di un albero sul Carso. Capace che riuscisse anche a leggere un orso così.

Non ho mai scritto ad un personaggio di un quadro, però. Neppure a quello con un calzino solo sulla Zattera che mi aveva affascinato tanto al liceo. E neanche al re decaduto in tante versioni della Ruota della Fortuna medievale, che pure coltivo come una forma di filosofia.

Ma eccomi a te, Helene. Eccomi a te, alle mie domande sulla tua solitudine, sulla tua storia, sulla tua vita.

Perché io so solo che è mattina, H., me lo dice l'autore che sono le 11 di mattina. Ma non mi dice dove sei, non mi dice se quella sia una delle stanze di un hotel che ha saputo rendere vere, o se i tuoi piedi si posino sul pavimento sopra il quale sei cresciuta, hai gattonato, mosso i primi passi.

I tuoi piedi. Helene. L'unica cosa che hai coperto, i piedi. Se è per il timore del pavimento sporco, non preoccuparti, lo capisco. A casa mia lavo il pavimento nel momento in cui una forchetta, cadendo, rimane infissa sulle punte... ma è solo questo? E che cosa ci fai su quella poltrona dall'aria così vissuta, allora?

Ma, Helene, soprattutto, cosa guardi? Che cosa osservi da quella finestra, che dallo scorcio ritratto immagino essere ad una certa altezza? Guardi il cielo, il mare, uno stormo di gabbiani su un porto, o più semplicemente osservi la vita fuori da quelle mura, la gente che passeggia ride fa la spesa si abbraccia piange corre litiga si strugge muore vive? E' angoscia serenità tristezza sonno gioia amarezza rammarico tranquillità morte vita quella che filtra da occhi che non ci consenti di rendere nostri?

Dovunque tu sia, Helene, per un attimo infinito ti ho voluto bene.

Tuo,
Alfonso

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